La letteratura scientifica è ricca di studi che dimostrano come la lipid-lowering therapy abbia un impatto fondamentale nella prevenzione degli eventi cardiovascolari, e come questa vada cominciata il più precocemente possibile (the earlier, the better) e con la massima intensità tollerata, in modo tale da abbattere i valori di colesterolo LDL (LDL-c) (the lower, the better).2
Oltre ai capisaldi, ossia le varie generazioni di statine e inibitori selettivi dell’assorbimento del colesterolo, farmaci dal meccanismo di azione più elaborato sono oggi disponibili in commercio e già ampiamente in uso nella pratica clinica. Alcuni studi, hanno dimostrato come gli inibitori di PCSK9 abbiano un impatto significativo non solo sull’abbattimento dei livelli di LDL, ma anche sulla riduzione della mortalità cardiovascolare.3 Altri farmaci di recente introduzione, come acidi ribonucleici ipocolesterolemizzanti e inibitori dell’adenosintrifosfato citrato liasi (ACL), rappresentano una ulteriore arma a completamento di un arsenale farmacologico già ben rappresentato.4-5
Questa classe di farmaci agisce bloccando la sintesi di colesterolo andando ad inibire l’HMGCoA-Reduttasi, un enzima coinvolto nella tappa più importante della biosintesi del colesterolo. Questo effetto va a determinare una maggiore espressione di LDL-Receptors sulla superficie cellulare degli epatociti, il che determina a sua volta un aumento dell’uptake di LDL-c dal sangue e, di conseguenza, una riduzione dei livelli di LDL-c ematici. L’impatto sulla riduzione del colesterolo LDL è considerevole, ma varia sia in base al tipo di statina che in relazione ad una certa variabilità individuale.1,6 Vengono definite:
*rispetto al valore basale
LDL-C = Low-density Lipoprotein Cholesterol
Tra i vari modi in cui è possibile classificarle, le statine vengono oggi raggruppate in tre generazioni. Le differenze tra le varie generazioni vertono sia sull’origine della molecola, che può essere naturale o sintetica, sia sulla natura chimica (idrofila o lipofila), che influenza la farmacocinetica della molecola stessa; ed in ultimo, non per importanza, sulla loro azione ipolipemizzante. Le statine di prima e seconda generazione hanno un impatto sull’abbassamento dei livelli di LDL-colesterolo pari a circa il 30% rispetto al valore basale; le statine di terza generazione, quelle considerate ‘’ad alta potenza’’, sono in grado di abbassare i livelli di LDL-colesterolo di circa il 50% rispetto ai valori al baseline.1,7
Ciò determina una riduzione della colesterolemia LDL nell’ordine del 15-22% alla dose standard di 10 mg al giorno, associato ad una diminuzione dell’8% dei trigliceridi e un incremento del 3% del colesterolo HDL. L’utilizzo dell’inibitore in associazione con le statine è raccomandato nei pazienti che non raggiungono il target LDL-c con le sole statine al massimo dosaggio tollerato, con una riduzione aggiuntiva di circa il 15%, superiore al solo aumento di posologia della statina.8-10 Nel 2020, il rapporto “L’uso dei Farmaci in Italia”, realizzato dall’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (OsMed) dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), ha mostrato un trend positivo per l’utilizzo dell’inibitore: un aumento in termini di consumo (+35,9%). Particolarmente interessante è la riduzione del costo medio per giornata di terapia dell’inibitore, sia da solo che in associazione, probabilmente attribuibile alle scadenze brevettuali avvenute negli ultimi anni.11 L’introduzione nel mercato italiano di associazioni precostituite di statine ad alta intensità e inibitore della proteina NPC1L1 fornisce la possibilità di nuovi scenari clinico-terapeutici in cardiologia preventiva e nel controllo dei livelli lipidici. Questo consente, in prevenzione cardiovascolare, un miglioramento in termini di efficacia clinica, di migliore tollerabilità e, soprattutto, di maggiore aderenza terapeutica. Queste associazioni riducono il colesterolo LDL di circa il 65%, oltre il target del 50% raccomandato dalle Linee Guida Europee sul trattamento delle dislipidemie.12
Va da sé che la scelta del farmaco da utilizzare deve essere adattata e personalizzata in base al fenotipo del paziente da trattare. Risulta fondamentale, in questo senso, andare a stratificare il rischio cardiovascolare del paziente, in maniera tale da comprendere il target di LDL da raggiungere. Tenendo conto dei livelli target di LDL e dei valori di partenza, e conoscendo le caratteristiche ipolipemizzanti dei farmaci a nostra disposizione, è possibile selezionare le molecole più adatte al paziente da trattare, tenendo conto di eventuali interazioni farmacologiche con altri farmaci assunti dallo stesso e di eventuali controindicazioni.12
Relativamente alle reazioni avverse, le più frequenti riportate in letteratura sono le alterazioni della funzionalità epatica e i dolori muscolari. Riguardo la funzionalità epatica, nello 0,5-2% dei pazienti trattati è stato segnalato un aumento dell’ALT, che va considerato come rilevante se i valori superano di 3 volte quelli di riferimento in almeno 2 misurazioni successive; tuttavia, l’insufficienza epatica è estremamente rara. Gli effetti avversi più frequenti riguardano l’apparato muscolare: la miopatia è stata rilevata in circa l’1% dei pazienti trattati e si manifesta con dolori muscolari, tensione dolorosa dei muscoli e innalzamento dei valori di CPK di 10 volte i valori limite. Il rischio di rabdomiolisi con susseguente mioglobinuria ed insufficienza renale acuta è, in ogni caso, estremamente basso.13
Oltre che in base alla loro efficacia terapeutica, la scelta sulla generazione di statina da utilizzare in un determinato paziente, nonché sulla molecola specifica, può essere basata anche sulla presenza di eventuali comorbidità (es. insufficienza renale) o di concomitanti terapie farmacologiche che potrebbero interagire con le statine stesse. In questo quadro, la terapia di associazione di vari farmaci ipolipemizzanti può avere degli effetti notevolmente positivi sul raggiungimento dei target di LDL-c nei vari pazienti. Lo studio IMPROVE-IT, ad esempio, ha dimostrato che l’associazione tra statina e inibitore della proteina NPC1L1 è in grado di ridurre significativamente il rischio cardiovascolare nei pazienti trattati, in misura superiore all’uso della sola statina.14,15
Un’altra problematica rilevante nella pratica clinica è rappresenta dall’aderenza alla terapia. La vera o presunta intolleranza, oltre alle non infrequenti riferite mialgie nei pazienti in terapia con statine, specialmente se lipofile e ad alte dosi, influenza grandemente l’aderenza terapeutica con conseguenze anche gravi sulla prognosi. Gli effetti collaterali, tuttavia, non sono gli unici responsabili della mancata aderenza, che trae origine anche da ragioni non prettamente cliniche, quali l’assunzione giornaliera di un elevato numero di farmaci. L’aderenza terapeutica è, probabilmente, la sfida più moderna e difficile per il cardiologo e un primo passo concreto potrebbe essere quello di “semplificare” il più possibile la prescrizione terapeutica, utilizzando le combinazioni farmacologiche.14,16-17
L’osservazione non è di poca importanza ed è noto che tra i predittori più potenti della scarsa o assente aderenza terapeutica, vi è il numero di farmaci assunti quotidianamente: in un’analisi retrospettiva di otre 3.000 pazienti in terapia antipertensiva e/o ipolipemizzante, ad esempio, l’aderenza terapeutica diminuisce gradualmente con l’aumento del numero dei medicinali prescritti da assumere quotidianamente, dimezzandosi quando la quantità diventa maggiore di 5/die.16,17
Prof. Paolo Calabrò
Ordinario di Cardiologia all’Università della Campania Luigi Vanvitelli,
Direttore della Cardiologia dell’Azienda Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta
Bibliografia
cod. NPS-IT-NP-00196